Noi coi nostri scooteroni e i caschi con le orecchie da coniglietto, noi con i nostri mulini imbiancati, noi con i nostri cassonetti stracolmi di ogni ben di Dio, noi con i nostri cagnetti isterici, come la mettiamo con la questione della guerra?
La questione della guerra ci turba nella misura in cui interrompe bruscamente il sogno di una vita totalmente materiale, ineducata, in-etica. La prima reazione è di accoglierla, la guerra, nel nostro confortevole mondo di scooteroni, mulini, cassonetti, cagnetti, eccetera.
Invitiamo la guerra a casa nostra e facciamola, per così dire, accomodare: si guardi pure alla tv dei talk show.
Non dovrebbe essere così. Non dovremmo, credo, cercare di neutralizzare la guerra.
La totale tragicità di questa guerra, rende inevitabile, non più rimandabile il confronto col nostro stile di vita e il nostro modo di essere. Emerge, da questo confronto - rispecchiamento l’esigenza, ma ancor più la nostalgia di un’etica collettiva alla quale richiamarsi, nella quale riconoscersi non solo individualmente ed egoisticamente. Un’etica "pubblica" non personale e privata, ma fondata su valori condivisi.
Non è un caso che (oltre alle due armate: quella stracciona di Saddam e quella ultratecnologica di Bush) in questa guerra si confrontino o pretendano di confrontarsi due visioni etico religiose del mondo. Bush attraverso la classica associazione weberiana calvinismo – capitalismo: Dio è con noi se facciamo buoni affari. Saddam attraverso la promessa del paradiso come premio al sacrificio della vita dei poveri. Dio è reclamato, più che invocato, da entrambi.
Ma anche chi è contrario a questa guerra, vuole Dio dalla sua parte ed è mosso dall’esigenza di un’etica nuova e antica al tempo stesso. Il Papa richiama ai valori fondanti della civiltà cristiana.
La parte laica di questo colorato movimento (non per nulla postasi sotto le insegne dell’arcobaleno) richiama ad un' idea di legalità che rischia di perdersi in vuoti formalismi (il veto, l’autorizzazione delle Nazioni Unite, la violazione delle procedure) se non si traduce in principi etici da valere in modo assoluto ai reggitori del mondo e agli interessi che a loro volta li reggono.
E’ possibile dare una risposta a questa esigenza, rompere quello che non è il silenzio di Dio, ma il silenzio del nostro cuore, inaridito come il deserto in cui si svolge la guerra?
Venendo, come necessario, al nostro paese, si ritrova questa stessa esigenza, ma ingigantita, resa grottesca, esasperata. Il nostro è un paese drammaticamente (o teatralmente se si vuole) privo di un’etica pubblica, di valori "fondanti". Non è un caso che, per richiamarne alcuni, debba passare attraverso un documento giuridico quale la Carta Costituzionale.
La questione italiana non è solo una questione morale , ma è il nodo stesso dalla cui soluzione dipende il difficile passaggio dell’Italia alla modernità, il suo consegnarsi alla storia come soggetto ancora riconoscibile. Occorrono fatica, pazienza, ostinazione, durezza verso noi stessi. Occorre trarre profitto da questa guerra per imparare i rudimenti della vita civile. Imparare a riconoscere la funzione civile della politica, a distinguere tra l’esercizio del potere e l’assolvimento di un servizio; ritrovare la strada e il gusto della responsabilità; affermare la funzione della giustizia ma riconoscerne anche i limiti, darsi, infine, delle vere virtù pubbliche che contrastino i vizi: quelli privati come quelli pubblici.
Solo per questa strada sarà possibile ricostruire un consenso civile, non coatto né superficiale, attorno ad un progetto politico degno di questo nome, da qualunque parte esso provenga.
Diversamente, la sola alternativa possibile sarà tra un consenso ambiguo e senza moralità o una moralità ambigua senza consenso: il che, salvo errore, fotografa attraverso il tormentone destra – sinistra, l’atteggiamento del nostro paese nei confronti non solo della guerra irakena, ma soprattutto, di se stesso e del proprio destino.
Articolo di Michele Marchesiello
Tratto da "LA REPUBBLICA" di sabato 5 Aprile 2003.