Perchè voto SI al referendum sull'art.18 Vorrei
chiamarvi a spendere un po’ del vostro tempo a riflettere su cosa
andremo a votare il 15 giugno e sulla sua reale portata. Il
quesito propone alcune questioni che nel minestrone massmediatico sono
passate in secondo piano e quasi mai sono spiegate chiaramente, vorrei
perciò provare a dare un quadro della situazione e spiegare perché
è importante andare a votare Si. La
pericolosità denunciata da chi sostiene il No si fonda sulla
convinzione che questa norma applicata ad aziende di dimensioni ristrette
finisce per bloccarne la capacità di assumere nuovi lavoratori.
L'obiezione non è di poco conto, perché l'Italia ha un'economia
strutturata intorno alle piccole e medie aziende, che hanno sostenuto
la crescita del paese anche nei momenti di crisi della grande industria.
Lasciando da parte le strumentalizzazioni che l’attuale maggioranza
porta continuamente sui media senza mai scendere nei reali termini del
problema, le accuse più dure all’art.18 anche nella formula
attuale, arrivano dai radicali e quindi dai convinti liberisti, favorevoli
allo sviluppo di un modello di mercato con meno vincoli e più
flessibilità. Questa
interpretazione del mondo del lavoro è però estremamente
pericolosa. Infatti, nella sua linearità di pensiero, che affascina
i suoi sostenitori, finisce per sacrificare all’economia l’esistenza
dei lavoratori. Il lavoro è in un impresa l’unico costo
flessibile, quindi l’unico che può essere immediatamente
aumentato o diminuito a seconda delle necessità. Le implicazioni
sociali di una totale flessibilità del mercato del lavoro così
concepito possono essere facilmente immaginate e si stanno in parte
verificando, coinvolgendo inevitabilmente altri settori come quello
dell’istruzione, ormai sacrificata al ruolo di produttrice di
individui funzionali alle necessità delle imprese (le tre I),
con poco riguardo per il pensiero, la cultura, la formazione di coscienze
critiche…Tengo a precisare che questa non è una presa di
posizione ideologica, ma è una convinzione che dovrebbe essere
portata con forza alle istituzioni, senza cadere nelle provocazioni
di chi addita di conservatorismo coloro che non “riescono a capire
come funziona il mondo”. Purtroppo credo che nella storia lo abbiano
capito in pochi. Ritornando
agli aspetti economici del quesito, quindi, penso che una vittoria del
Si non creerebbe quel disastro occupazionale che si sta paventando.
Nessuna statistica è riuscita a dimostrare che la cosiddetta
“flessibilità in uscita” produce occupazione. Ritengo
riduttivo additare l’art 18 come la causa della proliferazione
dei contratti atipici (cosa che più volte ho colto nel corso
dei dibattiti in TV). Inoltre non credo sia molto saggio e onesto prendere
come esempio economico gli Stati Uniti, nei quali l’aumento dell’occupazione
negli ultimi vent’anni ha sicuramente radici in un mercato proporzionalmente
molto più ampio di quello italiano (e in precedenza anche di
quello europeo) e non si può poi tacere che l’attuale attacco
allo stato sociale americano, se uno ne esiste, è accompagnato
da un aumento della disoccupazione e da un numero di posti persi che
solo nell’ultimo anno ha raggiunto il milione. E’
bene però precisare che sicuramente l’estensione dell’art.18
non può rappresentare una soluzione alle difficoltà occupazionali
e che non va a modificare la situazione degli atipici. Come giustamente
è stato fatto notare da molti il referendum non è lo strumento
adatto per iniziare una riforma del lavoro e sono convinto che i promotori
abbiano sbagliato nel promuoverlo, forse eccessivamente trasportati
dalle grandi manifestazioni dello scorso anno. Chi
con ciò è d’accordo è libero di portare avanti
le sue scelte in modo coerente.
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