La Voce di San Teodoro – gen/feb 2005 – ANNO 7 - N.1
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Storia di Genova di Andrea Camera
CAPO DI FARO


L’eliminazione del promontorio di san Benigno si colloca tra le più drastiche modifiche all’assetto urbano del ponente genovese. Fino al 1930 quello che era definito “Caput Fari”, il grande braccio roccioso che dal Belvedere si protendeva fino alla punta della Lanterna, formava una barriera naturale tra il centro e Sampierdarena.

Per andare e venire bisognava percorrere cinquecento metri circa di una strada - probabilmente l’antica via romana, come ricordano varie fonti - che costeggiava il colle e passava proprio sotto la Lanterna, ed era intervallata, in epoca moderna, da quattro posti di guardia, con cancellate e ponti levatoi. Oggi, osservando il monte all’inizio di via Cantore (alle spalle della Fiat) si può notare la spaccatura con addossati dei sostegni in cemento armato. Dalla parte opposta, sopra a via di Francia, emerge una collinetta rocciosa, con resti di edifici e sterpaglie. Questi indizi rivelano l’esistenza molto tempo fa di una vasta propaggine rocciosa che poi è stata tagliata.

Da numerose illustrazioni antiche si comprende come dalla cima del promontorio si potesse dominare l’intera città e la zona a ponente; la posizione favorevolissima, eccezionale dal punto di vista strategico, ne ha fatto un luogo ricco di memorie. La collina era frazionata in diverse proprietà agricole e orti, con ville e case coloniche. C’era, inoltre, un sito da cui si estraevano le pietre da costruzione. Tralasciando storia e qualità tecniche della moderna Lanterna – che per le vicende e l’importanza simbolica merita un discorso a parte – è necessario ricordare l’importanza del luogo fin dall’antichità per le segnalazioni ai naviganti. In epoche remote si accendevano probabilmente dei falò, come pure in altri punti della costa; successivamente, per il periodo romano, si presume l’esistenza di una torre, utilizzata per lo stesso motivo.

Ai primi del’ 300 il promontorio comincia ad essere chiamato Capo di Faro, o come attestano le cronache, “Codefà”, per via della lanterna collocata sulla torre edificata un secolo prima. La sua funzione era duplice, di difesa e segnalazione. Celebre l’episodio di un gruppo di Guelfi asserragliati nella torre, che sostenne per due mesi l’assedio dei Ghibellini. Coloro che per primi si fermarono sul colle in pianta stabile furono alcuni monaci Benedettini di Fruttuaria nell’anno 1121, quando, grazie alla donazione del colle da parte di un gruppo di nobili, edificarono un convento sfruttando forse una chiesa più antica, intitolata a S.Paolo.

A questo nome si aggiunse quello di S.Benigno, l’apostolo dei Burgundi. Tutto funzionò bene, almeno per i primi tempi; l’abbazia divenne ricca e importante, fino al XIV secolo, quando una crisi si abbattè sul cenobio, riducendo i monaci a due sole presenze, quando non al solo abate. La ripresa arrivò nel secolo successivo, quando il cenobio si unì alla congregazione della Cervara. I monaci divennero più numerosi e l’intero complesso attraversò una fase di restauri e rifacimenti. Dopo secoli di alti e bassi, nel 1799, con le leggi napoleoniche che decretarono la soppressione degli istituti monastici, i religiosi abbandonarono definitivamente San Benigno. Successivamente fu spogliata dei suoi arredi, la chiesa ridotta a magazzino di artiglieria, il campanile scoperchiato e trasformato in stazione segnaletica: nei suoi locali si stabilì il telegrafista.

Fu l’unica parte che rimase, quando, a metà Ottocento, si eliminò l’edificio per la costruzione delle grandi caserme; detriti e resti umani furono gettati in mare. Rimase soltanto il portale del ‘400, tuttora conservato in S.Giuliano d’Albaro: oltre, naturalmente, alla documentazione, e alle varie descrizioni, come quella del Ratti del 1780, che insieme a dipinti e stampe antiche, ci danno un’idea dell’abbazia.
Altra famosa costruzione presente sul promontorio, anche se per pochi anni, fu la fortezza legata all’occupazione francese a Genova. Era il periodo delle guerre tra Francesi e Spagnoli per il predominio in Italia. Luigi XII, durante una giro di perlustrazione, osservò il promontorio, notando la posizione strategica del sito, proprio nel punto in cui il suo esercito aveva trovato più tenace resistenza da parte dei genovesi.

Decise così di edificare il “Mouvisine de Codefà”, con l’esborso di 40.000 scudi da parte della cittadinanza, da aggiungersi al giuramento di fedeltà. Pianta quadrata, sessanta passi per lato, fu chiamata “Briglia”, poichè avrebbe dovuto “tenere a freno” la popolazione. Anche in questo caso, per farsi un’idea della sua mole occorre osservare alcuni affreschi: la forma seguiva la conformazione dei dirupi, con le cortine che sembravano nascere dalla scogliera e si chiudevano in un perimetro irregolare; due torrioni la cingevano a est e ad ovest; davanti, alcuni avancorpi a tetto spiovente.

Ma la sua vita fu di breve durata. Nel 1512 la popolazione prese le armi e gli stessi francesi subirono l’assedio nella “briglia”, munitissima di moderni pezzi d’artiglieria. I genovesi tentarono tutti i sistemi possibili per espugnarla (famoso l’episodio di Emanuele Cavallo, che trascinò una nave nemica, tagliando loro i rifornimenti), fino alla resa dei soldati francesi; poco dopo si decise di radere al suolo l’odiata fortezza, protagonista dell’assedio più lungo della storia genovese. Gli scontri danneggiarono anche la torre-faro, al punto che i Padri del Comune decisero di ricostruirla nel 1543 secondo le forme attuali.

Tra il 1626 e il 1632, per timore di un’invasione dei Piemontesi alleati con i Francesi, fu progettato e costruito un nuovo perimetro murario con bastioni e baluardi, che in questa zona doveva cingere tutto il massiccio di Capo di Faro, verso nord fino alla bastia di Promontorio. Proprio qui, sul colle, si diede inzio ai lavori, ponendo la prima pietra con una grande cerimonia di cui parlano le cronache. Una delle due porte principali della città si trovava nei pressi della Lanterna, era arricchita da colonne in stile dorico e sormontata dalla statua della Madonna di B. Carlone.

Più tardi, nel 1828, il Colonnello A. Chiodo ne progettò un’altra in posizione più arretrata, a doppia entrata e con ponti levatoi. Egli fece inoltre installare una potente batteria a difesa dei versanti di terra e di mare. Ma, ironia del destino, nel famigerato 1849 tutto l’ armamento servì non per difendere, ma contro la popolazione, che in seguito alla rivolta contro le truppe sabaude, sperimentò tragicamente il fuoco di questa artiglieria su ordine del generale Lamarmora. Il quale, l’anno dopo, propose al governo piemontese di edificare sul sito le grandi caserme - quasi la stessa funzione pratica e simbolica dell’antica Briglia - capaci di ospitare 10.000 soldati.

Ultimate nel ‘57, furono demolite nel 1930, insieme allo sbancamento dell’intero promontorio: da qualche vecchia foto si può osservare come coprissero tutta la dorsale del capo, “armonizzandosi” col suo profilo. Da qui i fanti e gli artiglieri ricevevano il saluto dei parenti prima di partire per il fronte, nel 15-18. La demolizione del promontorio comportò, tra le altre cose, il trasferimento a Staglieno del cimitero inglese, situato anch’esso sulla sommità, intorno al 1900. In un romantico dipinto di D.P.Cambiaso si osserva la cima del colle presa verso sud, con un tratto di vegetazione, più avanti una grande dimora patrizia, e, sullo sfondo, il faro; quasi in primo piano, il ciuffo di cipressi delimitato da un muro. E’ una delle rare immagini del piccolo cimitero, del quale accenna Alizieri nella sua “Guida artistica”: «[…]Sulla cresta del promontorio che corre ad unirsi alla collina degli angeli fu spianato e chiuso di mura un cimitero per gli inglesi che muoiono in queste contrade. Sorgeva per l’addietro sull’area stessa un cappella dedicata a Santo Stefano, la quale donata per Regia beneficenza alla detta nazione mutò faccia. Giacomo Sterling console inglese presso S.M.il Re di Sardegna uguagliò il suolo scosceso di greppi, e lo fè ridurre all’uso presente, come dice una lapide all’ingresso […]».

In realtà, la fine del colle di San Benigno fu lenta e progressiva: già da tempo il fianco era “mangiato” dalla cava della Chiappella, dietro via Milano, mentre i lavori di apertura durarono fino agli anni ’30; l’unione di Sampierdarena con Genova era un fatto compiuto. Ultimo tragico atto, nel 1944 all’interno della galleria ferroviaria esplose un treno di munizioni facendo danni e numerose vittime, ricordate nella lapide collocata in Via Albertazzi, grazie anche all’intervento di Don Bruno Venturelli.